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fra gli sguardi ammirati e riverenti.
Sogna. E dal sogno lo trae un sordo tramestio che gli
viene da dietro le spalle. Una mano lo scansa, lo spinge
verso il muro. Che cos è? Bisogna fare largo. Mero vede
che Mia s è volta a guardare indietro. Allora anche Mero
si volta.
Ora le due angiolone avanzano lentamente, e sono
gravi in volto come due giovani parche. Cammina da-
vanti la terza parca, colei che ha spinto Mero verso il
muro. E dietro viene la lettiga: la lettiga coperta da quel-
la rozza coperta a bande grige e nere che rammenta i
dormitoi delle caserme.
È vuota.
Lo strano corteo avanza. E Claudia? Claudia è rima-
sta in cima al suo monte, circondata di fiamme. Un gri-
do, e dentro a quel grido il nome di Claudia arriva fino
dietro ai denti di Mero, ma lí muore. «La chiostra dei
denti» pensa Mero, cui in quello stupore tornano in
mente le assurde locuzioni di Ippolito Pindemonte.
La lettiga passa davanti a Mero. E Mero guarda avi-
damente. Guarda avidamente la coperta. Guarda avida-
mente la coperta sotto la quale si arrotonda appena una
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Letteratura italiana Einaudi
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orribile, una pietosa forma. Come un bassorilievo di
fango. Come l ultima vista di un corpo che sta per calare
definitivamente nella sabbia.
Mero ricorda: cosí arrivò e cosí ripartí il cadavere
quel giorno, nella sala anatomica dell università di Bolo-
gna. Cosí era quell uomo ucciso da un automobile in
una strada di Ancona, sotto la coperta che gli avevano
buttato sopra.
La lettiga passa. Si allontana verso il fondo del corri-
doio, nella medesima direzione seguita dianzi da Rosci,
il pugile stanco e sceso allora allora dal ring.
Quando Mero entrò al numero 59, la luce era spenta,
i fiori scomparsi, l aria densa e raggelata di ètere. Ombre
di donne stavano chine intorno al letto che sprofondava
nel mezzo come una fossa. Una era piú alta e piú nera
delle altre. E costei di tanto in tanto pronunciava alcune
parole a voce bassa. Era una suora. Aveva uno strano ac-
cento e stranamente formulava le frasi. Diceva: «Volto-
lare testa... voltolare da una parte, altrimenti vomito può
soffocare». E le ombre si chinavano anche piú sul letto,
come se spiassero, come se aspettassero qualcosa. E la
suora diceva: «Ecco... si sveglia...».
Allora, dal fondo del letto coperto d ombra, un sordo
gorgoglio cominciò a salire, come acqua che cerca di
aprirsi un faticoso varco attraverso un ingorgo di mota.
Il gorgoglio cessava poi riprendeva; riprendeva piú
forte.
Nelle pause la suora diceva con voce nuova, con voce
diversa da quella usata con le altre ombre di donne, e
specialmente atta a parlare a quel rampollante gorgo-
glio. Diceva: «Respirare forte... Buttare fuori tutta brut-
ta roba... Pfui!».
Poi, d un tratto, con la voce di Prima: «Presto!.. VoI-
tolare testa!». Un rauco sbotto di vomito salí su dal let-
to, cui seguí un doloroso sospiro, una lunga esclamazio-
ne di sofferenza e assieme di liberazione.
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Letteratura italiana Einaudi
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«Ecco!» annunciò con solennità la suora nel buio.
«Ecco, si sveglia!».
Il gorgoglio ricominciò piú forte, piú agitato. Come
bolle che nascessero, si gonfiassero, si accavallassero le
une sulle altre per salire, si spaccassero sotto la spinta di
nuove bolle che urgevano di sotto. E da quell inquieto
rampollare di suoni uscirono a poco a poco alcune silla-
be, si disposero una appresso all altra, formarono una
parola, un nome:
«Vir...gi...lio...».
In principio Mero non capí. Poi ebbe come uno stu-
pore culturale, come una curiosità letteraria. Poi...
La vita, i ricordi; tutta la vita, tutti i ricordi si capovol-
gono, e Mero si ricorda che lui non si chiama Virgilio,
ma Omero.
Omero. Come Bice oggi gli ha ricordato due volte.
E Virgilio allora? Virgilio che viene a fare? Virgilio
chi è? Chi è questo Virgilio di cui egli non sa niente, che
non ha mai sentito nominare; questo Virgilio che sale
dagli abissi dell incosciente?
Nel gelo della situazione cosí stranamente creata, af-
fiora il comico della inaspettata contrapposizione di no-
mi. Lo sguardo di Mero si fissa sulle ombre delle donne
chine intorno al letto. Ma nessuna si è mossa. Forse non
hanno capito. Forse non hanno udito. Anche l assurda
«trasmutazione di valori» si affaccia alla mente di Mero,
essa pure straordinariamente comica: Virgilio che si so-
vrappone a Omero: Virgilio superiore a Omero!
Il gorgoglio del risveglio si allontana, si allontana, si
allontana. Ormai che glie ne importa a Mero del risve-
glio? Il passato si denuda di colpo, come un campo di
grano sul quale è passata una miracolosa falce. Il vuoto
gli si fa intorno. E dal fondo di quel vuoto Mero vede la
vita di Claudia, di Claudia che attraverso quel gorgoglio
e quegli sbocchi di vomito rinasce alla vita; la vede con
occhio freddo, preciso, critico; la vede come un che di
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Letteratura italiana Einaudi
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estraneo a lui a lui che credeva conoscerla fino in fon-
do, fino alla radice; e non solo conoscerla ma spartirla,
possederla; la vede come un mare «verticale», un mare
in sezione; un mare di cui si vedono i sovrapposti strati
liquidi, dai piú chiari ai piú tenebrosi e a quelli che na-
scondono gli insondabili abissi; e su in alto, sulla super-
ficie di quel mare, sul pelo di quell acqua sul pelo di
quella vita, Mero vede se stesso, in forma di barchetta
che galleggia... E pensa pigliandosi in giro pigliandosi
tragicamente in giro:
«Omero Barchetta...».
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OCCHIO N. 8
Nel paese della Vera Amicizia l amicizia è tale che an-
che i nemici diventano amici, e l amico chiama l amico
non col nome di lui ma con il suo proprio. Cesare chiama
Pompeo Cesare, e Pompeo chiama Cesare Pompeo. Fini-
scono cosí col non piú sapere chi è l uno e chi è l altro, ma
questa confusione di nomi, molto piú efficace della confu-
sione del sangue che praticavano gli antichi Germani, ha
messo tra Cesare e Pompeo una pace duratura che dura e
durerà sempre e sempre piú dura finché il mondo dura, e
diverrà la base, ormai siamo autorizzati a sperarlo, della
pace universale.
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STORTA LA VITA SANA?
Quello che capitò a Malino Fers nella notte dal 23 al
24 maggio 194..., gli rappresentò anzitutto quanto poco
preparati noi siamo all Imprevisto. Quando Malino fu
novamente in condizione di parlare, la sua voce ridotta a
un pallido nastro di suoni disse:
«Ci accorgiamo d un tratto quanto impreparati noi
siamo all Imprevisto».
Piatte di suono, le parole avanzavano stente sui piedi-
ni mutili. Alcune cui mancava forza di un volo sia pur
minimo, colavano come liquido da una bocca sdentata
sulla riversina del lenzuolo segnato con le iniziali V.I.
della clinica Villa Igea. Malino continuò:
«Viviamo nell abitudine. Viviamo dentro l abitudine
come la talpa dentro la terra. Facciamo oggi quello che
abbiamo fatto ieri e faremo domani. Consideriamo irri-
mutabile e fisso quello che invece è mutevole e provvi-
sorio. Che è un riflesso in fondo, una variante del nostro
abito costante, confortevole, e assieme insaggio di amare
come stabili e immortali, le cose mortali e transitorie».
Malino fece una pausa poi riprese:
«Tutto va bene finché si va per il verso buono o me-
glio per il verso abituale. Ma guai... guai se l Imprevisto
traversa d un tratto la nostra strada, arresta il corso im-
bottito e soffice delle abitudini, ferma il ricorrere circo-
lare di quei pochi fatti, di quelle poche cose, di quelle
poche immagini, di quelle poche persone che passando
e ripassando davanti a noi compongono la nostra vita.
Non vi lagnate, uomini, della Monotonia: è la nostra
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